sabato 31 dicembre 2011

Buon anno dal nostro studio


Carissimi lettori,

vi auguriamo un buon nuovo anno che sia ricco di serenità e benessere psicologico, stati dell'uomo che noi ci prodighiamo a perseguire con il nostro lavoro quotidiano.

Colgo anche l'occasione per ringraziare tutti i colleghi che, in questi pochi mesi dall'inizio del blog, con i loro preziosi contributi hanno arricchito questo spazio web virtuale e tutti coloro i quali mi hanno segnalato dubbi, approfondimenti e questioni da trattare sul blog.

Il mio augurio è che, nel prossimo imminente anno, il lavoro fin qui svolto possa ampliarsi per rendere questo blog uno spazio di confronto, consulto e di sentita partecipazione da parte di tutti.

Un ultimo ringraziamento, va ai circa 1000 lettori che nel giro di poco più di 2 mesi ci hanno seguito costantemente e spronato a proseguire nelle nostre pubblicazioni. Grazie a tutti!

Buon anno
dr Marco Santini

mercoledì 21 dicembre 2011

Auguri

Carissimi lettori e carissime lettrici,

è con piacere che, a nome dello staff e dei colleghi che lavorano con me a questo blog e nella vita di tutti i giorni, vi porgo cari auguri di buone feste, augurandovi tanta serenità e felicità nei rapporti interpersonali, in famiglia e nelle vostre relazioni più care.

Spesso questi momenti di ritrovo tra familiari, amici e parenti risultano fonte di attriti e di problemi di varia natura, incomprensioni, malumori (vedere il post del 14 dicembre u.s). Mi auguro che questo non accada nei vostri nuclei familiari e che, laddove succedesse, vengano da voi utilizzate le risorse necessarie per ovviare a queste situazioni. Per problemi di altra natura, rimango a Vs disposizione.

Rinnovando gli auguri, Vi saluto a nome dello studio "Percorsi Psicologici"

dr Marco Santini
santini@percorsipsicologici.com

mercoledì 14 dicembre 2011

Stress pre- vacanze

Carissimi,
si avvicinano le vacanze e il post di oggi vuole essere in linea con il periodo pre-vacanziero! Lo stress che si accumula in periodi che di norma sarebbero deputati al relax, alla condivisione di momenti di serenità e di vicinanza, è spessopresente in misura maggiore  rispetto a quello presente in altri momenti dell'anno e le situazioni di riposo vengono spesso viziate da liti, incomprensioni e problemi di varia natura.

Come mai tutto ciò accade così di frequente in questi momenti dell'anno?

Inninzittutto è bene esplicitare che la vacanza non è un obbligo ma è un momento in cui ognuno si può dedicare a se stesso, ai propri desideri, cercando il più possibile di evitare di conformarsi con la società e con ciò che sarebbe giusto fare (e poi, giusto per chi?!). Spesso, infatti, in questi momenti si vuole dimostrare qualcosa agli altri, per guadagnare rispetto e stima, a discapito però del proprio desiderio e del proprio benessere, facendo così accrescere una tensione interna che è poi destinata a trovare uno sfogo (peggio ancora è quando rimane dentro e logora dall'interno la persona). Se l'ansia è già presente in voi, è forse necessario fare una scelta vacanziera che non sia fonte ulteriore di ansia, ma che anzi possa andare ad alleviare questo stato di tensione (es: viaggio organizzato vs viaggio all'avventura!).
Se poi lo stress da vacanza si trasforma in un vero e proprio nemico da combattere, allora è meglio affrontare il problema seriamente rivolgendosi ad uno psicologo per un trattamento specifico.

martedì 6 dicembre 2011

Recensione film "Midnight in Paris"


Carissimi,
oggi ho il piacere di postare la recensione cinematografica della collega dott.ssa Chiara Marabelli in merito all'ultimo film di Woody Allen. Buona lettura...

Midnight in Paris

Woody Allen, regista (e autore) quanto mai produttivo, si presenta a Natale 2011 con un film, “Midnight in Paris”, che ci fa capire quanto questo artista abbia ancora da dire e da comunicare al suo pubblico.
Il protagonista di “Midnight in Paris” è Gil (Owen Wilson), uno sceneggiatore americano di Hollywood in procinto di sposarsi con Inez (Rachel McAdams); entrambi si trovano a Parigi con i genitori di lei, repubblicani “ortodossi”, per una vacanza. Gil ama moltissimo l’atmosfera di questa città e la considera una possibile fonte di ispirazione per il suo lavoro, tanto da sognare di potervisi trasferire; Inez, invece, è insofferente all’idea e, come la sua famiglia, sminuisce continuamente le aspirazioni di scrittore del fidanzato. Gil, infatti, sta scrivendo un romanzo che narra la storia di un uomo che lavora in un cosiddetto “negozio-nostalgia”, di quelli che vendono oggetti appartenenti al passato. Incompreso e a tratti deriso per questo da Inez e dai suoi amici, Gil ricerca la solitudine e inizia a perdersi nelle notti parigine. Qui, dopo la mezzanotte e con l’aiuto di un vecchio taxi, si tuffa negli anni ’20, dove incontra (tra gli altri) un innamorato Francis Scott Fitzgerald, un passionale Ernest Hemingway, un tormentato Pablo Picasso e, infine, la bella e malinconica Adriana (Marion Cotillard), modella, musa ispiratrice e amante di tanti artisti del passato.
Come in un sogno, che prende il via per caso da un angolo parigino, Gil avrà modo di riflettere su se stesso, su ciò che ama e su ciò che teme, ossia la morte. Ma ciò che il protagonista forse teme di più, come lui stesso ammette alla fine del suo viaggio, consiste nell’affrontare la naturale condizione umana di insoddisfazione nei confronti della vita, e la consapevolezza che niente potrà mai essere perfetto: rincorrere ciò che si crede essere “l’epoca d’oro”, diversa per ognuno di noi, può significare continuare a inseguire un ideale per definizione irraggiungibile, senza però mai vivere il presente, considerato irrimediabilmente un’epoca di decadenza. Sarà forse la presa di contatto del protagonista con i suoi desideri più autentici che lo guiderà nelle scelte (anche con l’aiuto di Carla Bruni, la quale compare in un piccolo cammeo nel ruolo, appunto, di una guida turistica) per ritrovare la propria dimensione in un presente tutto da costruire.
È solo nel sogno che Gil riesce a liberare il filo dei suoi desideri e, proprio come il sogno, il film possiede più livelli di lettura: è, infatti, anche una riflessione sul rapporto con l’arte, che può essere personale e viscerale, così come lo sperimentano i veri artisti (e le persone sensibili), oppure colto, ma superficiale e distaccato, così come lo vive l’amico di Inez, esperto conoscitore del bello e delle opere d’arte, ma incapace di comprenderle veramente. Nel primo caso la strada da percorrere richiede certamente più coraggio (Gil, del resto, pensa di lasciare il suo pur redditizio lavoro come sceneggiatore per fare lo scrittore), ma l’abbandono di certezze ingabbianti, anche se rassicuranti, può dare in cambio, anche se solo per un attimo, la sensazione di una vita veramente vissuta.
Woody Allen ci regala un film mai banale nelle sue suggestioni, impreziosito da cammei d’eccezione (oltre alla Bruni, Adrien Brody e Kathy Bates nei ruoli rispettivamente di Salvador Dalì e Gertrude Stein), da una colonna sonora avvolgente e affascinante, e dalle immagini di una Parigi romantica e misteriosa.

A cura della dottoressa Chiara Marabelli
Via Rovani 11, Milano
www.chiara-marabelli.webs.com

giovedì 1 dicembre 2011

Aiutare un proprio caro...


Carissimi,
oggi vorrei iniziare con una richiesta che è giunta al mio sito attraverso il modulo contatti alcuni giorni fa. Non è raro per me ricevere queste richieste e da questo spunto, vorrei condividere con voi alcune riflessioni circa l'aiuto che ciascuno di noi può dare al proprio caro che soffre di un disagio psicologico.

"Buona sera Sto cercando un centro di sostegno psicologico perchè mio fratello si è appena separato e sta cadendo in depressione ha dei forti sbalzi di umore. Vorrei sapere se è possibile avere un appuntamento a breve. Grazie"

Una delle prime emozioni che proviamo quando vediamo il disagio negli occhi dell'altro è la voglia di renderci utili per aiutarlo a stare bene e in questo ci adoperiamo in diverse maniere, fornendo un aiuto concreto, dei consigli, il nominativo di uno specialista ecc ecc, e a volte questo può bastare nel risolvere la situazione. 

Ma quando invece questo non basta e la persona non ha voglia di farsi aiutare? Rifiuta l'aiuto e anzi nega che sia realmente bisognoso e da del "malato" a chi lo vuole aiutare?

Qui le cose si complicano, e anche i sentimenti che "l'aiutante" prova si intensificano, si prova disagio, rabbia per un qualcosa che non va come si aveva pensato, frustrazione, paura che la situazione non possa evolversi al meglio come era prima, si incrinano i rapporti con il "malato" ecc ecc. In questi casi, non vi è purtroppo un modo giusto da seguire. A mio avviso, per l'esperienza che ho maturato in questi anni in diversi contesti clinici, ho sempre consigliato al richiedente di condividere con il proprio caro questi passaggi, che vengono spesso percepiti e agiti come sotterranei, e comunicati a lui solo a cosa fatta, "caro, ti ho fissato un appuntamento con il dottore". Questo spesso, in un momento già di fragilità per la persona, fa perdere la fiducia nei cari e di conseguenza nelle loro, seppur buone, azioni. 


A presto
dr. Marco Santini
Psicologo - Via Monte Grappa 272 - Sesto San Giovanni
www.percorsipsicologici.com

lunedì 28 novembre 2011

Recensione film "17 ragazze"




Vorrei recensire un film francese del 2011, in cui mi sono imbattuto, un po’ per caso, durante il Festival del cinema di Torino. L’ultimo film a cui ho potuto assistere con il biglietto giornaliero è stato una piacevole scoperta: si intitola 17 filles (ragazze) e parla di alcune adolescenti che decidono di rimanere tutte incinte contemporaneamente. La vicenda è drammatica (tanto più se si pensa che è ispirata a fatti realmente accaduti), ma viene raccontata con un tono leggero, da commedia.
La scelta di adottare questo tipo di linguaggio cinematografico, da parte delle due registe francesi, che hanno collaborato alla realizzazione della pellicola (e che sono anche sorelle) non è stata fatta per sminuire l’importanza del fatto rappresentato, ma per dar voce al punto di vista delle 17 adolescenti protagoniste del racconto, le quali non sembrano rendersi ben conto di ciò che la maternità comporta, a maggior ragione ad un’età così precoce. Per queste ragazze, dare alla luce un bambino, significa solamente ottenere dei vantaggi, non dovendo più sottostare alla legge dei genitori, ma diventando adulte a loro volta. L’agito di gruppo non consente di prendere in considerazione tutti gli aspetti della maternità. L’utopia, e in quanto tale non realizzabile, di questo gruppetto di adolescenti, è quella di costituire una comune, all’interno della quale poter vivere e crescere i propri bambini aiutandosi a vicenda. La figura del maschio è di fatto abolita, puro strumento accessorio per la riproduzione.
Questo gruppo di 17 adolescenti, che così si viene a costituire, dà l’illusione dell’onnipotenza, resa ancora maggiore dal senso di completezza conferito dalla maternità. Su tutto, spicca l’assenza del padre. Padre inteso come elemento terzo, in grado di svolgere una funzione evolutiva, separatrice dell’unità simbiotica madre-bambino. Ma non è solo il padre ad essere una presenza evanescente. Sono gli adulti in quanto tali a non rivestire una funzione pensante per queste adolescenti: non comprendono ciò che sta accadendo, assistono spaesati ed impotenti ai fatti. Sarà un evento traumatico a infrangere l’illusione e a costringere le protagoniste a fare drammaticamente i conti con l’esame di realtà.
Da segnalare la bravura delle attrici, che recitano con grande naturalezza ed esperienza, nonostante la loro giovane età e nonostante fosse la loro prima volta su un set cinematografico.

A cura del dott. Damiano Bertolino
Psicologo - Padova, Via Cavallotti 61
cell: 3669309334

Recensione film "Paranoid Park"


Oggi postiamo la recensione della collega dott.ssa Tiziana Carciotto che ha recensito il film "Paranoid Park", dove sono centrali le problematiche adolescenziali della crescita, soggettivazione e del rapporto con il mondo adulto. Lascio la parola alla collega...


Paranoid Park, drammatico, thriller , 2007
di Gus Van Sant (tit. orig. Paranoid Park)


Un parco di cemento è il ritrovo che gli skaters si sono costruiti per gestire la frustrazione adolescenziale.  Gus Van Sant inquadra gli adulti solo se necessario. Su loro, gli adolescenti, tiene la macchina da presa, a livello polpaccio e abusando del ralenti, quasi a far rivivere la lentezza dei processi psichici. Protagonisti, in questa pellicola, i processi psichici di Alex, 16 anni, glabro skater di Portland che uccide accidentalmente un agente di sicurezza. Da qui un ribollire di volti, rumori, dialoghi. Il tentativo è quello di filtrarli, allontanarli da Sé in modo che la realtà diventi un ricordo da poter guardare con gli occhi, come qualcosa che appartiene al mondo esterno. Meccanismo per padroneggiare ciò che insidia dall’interno: la morte di un uomo causata accidentalmente. E il rimando associativo va al dostoijevskiano Raskolnikov.Riprendendo l’universo dell’adolescenza, già delineato con Will Hunting - Genio ribelle 1997,il regista rappresenta le contraddizioni psicologiche e comportamentali di Alex, e che caratterizzano l’adolescenza, periodo che sfugge ad una chiara definizione. E il silenzio del protagonista diventa la modalità comunicativa d’elezione. La sensazione è che possibili posizioni moralistiche o giustificazionistiche lascino il posto ad una lettura cauta, accompagnata da una bella colonna sonora ,che beve dal rock e da  Nino Rota, con un omaggio al  Fellini di Amarcord e Giulietta degli spiriti. Il suono al posto dei dialoghi.


A cura della dottoressa Tiziana Carciotto
Psicologa - Via Siena 24, Catania

lunedì 21 novembre 2011

Recensione film "Carnage"


Carissimi,
oggi pubblichiamo la recensione del film Carnage di Roman Polanski, scritta dalla collega dott.ssa Elena Munarini. Lascio la parola alla collega, ricordandovi di votare il nostro sondaggio e di segnalarci idee, suggerimenti e vostre riflessioni, sempre ben accette e segno di una vostra continua attenzione, grazie.

Carnage

Mi sono chiesta: di che cosa parla questo film? Si potrebbe dire che ci sono gli spunti per riflettere su tanti temi, psicologici e sociali: i problemi di coppia, il rapporto madre figlio, le guerre che lacerano l’Africa, il cinismo delle case farmaceutiche, l’ingiustizia della giustizia, l’ossessione per i cellulari, addirittura il problema delle bande giovanili…Quindi parla di questo? No, a mio avviso nemmeno un po’. Anzi, nei 79 minuti del suo film Polanski svuota di qualunque spessore tutti questi serissimi argomenti riducendoli ad una puerile parodia, una maschera dietro cui si nascondono sentimenti di insoddisfazione, rancori, disillusione e disperazione. Ma il film non parla poi davvero nemmeno di questo. Semplicemente non è un film che parla, ma è un film che agisce sullo spettatore immergendolo insieme ai quattro protagonisti in una palude primitiva fatta delle brutture che abbiamo dentro. Con loro sperimentiamo la distruttività dei meccanismi di scissione e proiezione, una china priva di appigli in cui in un attimo l’altro catalizza ciò che di noi non tolleriamo e ci permette di odiarlo liberamente. E il film ci consente di vedere, forse più quando è finito che mentre lo si guarda (perché nel mentre la voglia di azzannare il tuo vicino di poltrona è troppo forte…), che mai come quando siamo vittime di questi meccanismi, le differenze individuali si annullano e diventiamo tutti uguali: bambini addolorati, di anche meno di 11 anni, che non possono fare altro che arrabbiarsi e piangere. È un film che non si può definire semplicemente bello o brutto, perché il valore sta nella capacità di far vivere qualcosa di intenso, di molto sgradevole, ma che non si può non sentire come una propria parte che si vorrebbe avere cancellato per sempre diventando grandi: forse che siamo al cospetto del “Perturbante”? 

A cura delle dottoressa Elena Munarini
Psicologa - cell 3381221342

domenica 20 novembre 2011

Recensione libro "Cortesie per gli ospiti"


Carissimi,
è con estremo piacere che oggi lascio la parola per la prima volta alla collega ed amica, dott.ssa Elisabetta Negri, che recensisce il libro di McEwan Ian "Cortesie per gli ospiti"


Avete mai visto la trasmissione tv “Cortesie per ospiti”?  una coppia di amici, parenti, conoscenti, colleghi invita a cena un’altra coppia di amici, parenti, conoscenti, colleghi alla presenza di tre giudici che valutano il menù proposto, lo stile della casa e il saper ospitare e riuscire a creare una situazione di dialogo e di buona convivenza con persone estranee.

Il titolo è preso da un libro intitolato appunto “Cortesie per gli ospiti”.

Anche nel libro si raccontano le storie di due coppie.

Mary e Colin sono fidanzati da sette anni, stanno trascorrendo un periodo di vacanza al mare e le loro giornate sono scandite da ritmi lenti, silenzi condivisi, spazi individuali, obiettivi comuni, rispetto e stima reciproca. Danno l’idea di una coppia quasi noiosa, tanta è la comprensione e la sintonia dei loro movimenti senza una passione travolgente. Sono i migliori amici l’uno dell’altra.

L’incontro con lo sconosciuto Robert,  spezzerà l’equilibrio della coppia.

Robert racconta la propria storia infantile fatta di crudeltà, prevaricazioni e soprusi.

La casa in cui Robert vive con la moglie Caroline sembra racchiudere molti segreti.

Gli armadi sono chiusi a chiave, i mobili sono pesanti, le collezioni di rasoi diventano soprammobili.

La definizione dei ruoli maschile e femminile è netta:il maschio è dominante, non sono ammesse debolezze, difetti, fragilità; la femmina è sottomessa, succube, non ha una sua volontà, ama l’aggressività, la forza e il potere negli uomini. Le donne ardono dal desiderio di essere dominate dagli uomini.

Robert e Caroline vivono all’interno di un rapporto perverso sado masochistico in cui i ruoli di persecutore e vittima sono definiti e sostenuti.

Mary e Colin all’inizio sono spaventati dall’atmosfera che aleggia nella casa e dai comportamenti dei padroni di casa ma allo stesso tempo ne sono attratti.

Una nuova passione ravviva il loro rapporto e le loro fantasie, portandoli a ricercare ancora la compagnia di Robert e Caroline.

I ruoli si ridefiscono. La coppia Robert e Caroline svela il proprio progetto condiviso e premeditato in cui un altro, un individuo al di fuori della coppia diventa l’oggetto predestinato delle perversioni di entrambe a cui vengono riservate cortesie speciali.

La trasmissione tv evoca convivialità, un ripasso delle regole del galateo e dell’ospitalità … il libro suspense e interrogativi rispetto alla conoscenza di noi stessi e dei nostri limiti … Ho visto la trasmissione e solo dopo e senza conoscere nulla del libro l’ho letto … Il titolo della trasmissione trae in inganno ma vale la pena:una sottile perversione dell’autore? … 

A cura della dott.ssa Elisabetta Negri
Psicologa

sabato 19 novembre 2011

Recensione film "Un'ora sola ti vorrei"


Carissimi lettori,
oggi postiamo una recensione realizzata dal dr Damiano Bertolino su un film-documentario che ha molte linee di confine con il lavoro che svolgiamo nei nostri percorsi di cura, di risignificazione del dolore e dei vissuti delle persone che si rivolgono a noi. 


Un’ora sola ti vorrei è un film-documentario della regista milanese Alina Marazzi. Quest’opera prima, che ha ottenuto il riconoscimento come miglior documentario al festival del cinema di Torino nel 2002, si distingue per il tema che presenta allo spettatore: la ricostruzione della vita della madre della regista stessa.

Un elemento che colpisce, nella visione di questa pellicola è il materiale utilizzato per dare forma al racconto; grazie alle immagini dei filmati amatoriali, girati dal padre e dal nonno della Marazzi, lo spettatore può formarsi una rappresentazione vivida di questa madre, nonostante la narrazione segua lo stream of consciousness. Attraverso libere associazioni la regista dà voce agli affetti più estremi di questa donna morta suicida, quando ella era ancora molto piccola. È la Marazzi stessa a leggere le parole scritte da sua madre su diari e lettere. È lei che, voce narrante, ci conduce alla scoperta di qualcosa di intimo e segreto, che neppure lei conosce, perché di ciò, non conserva memoria. Invece di usare il lettino dello psicoanalista la regista milanese, nipote del fondatore della casa editrice Hoepli, compie un’opera di auto-analisi. Lo fa selezionando e montando le immagini di quei filmati amatoriali. Così facendo, ricostruisce una memoria che le consenta di volgere uno sguardo diverso sul passato e, come in un après coup, può accostarsi riappacificata al ricordo del genitore scomparso 30 anni addietro. In quest’opera di collage, la film-maker riesce nell’impresa di formare un quadro perfettamente riuscito, la cui visione è catartica tanto per lei, quanto per noi.


A cura del dott. Damiano Bertolino
Psicologo - Padova, Via Cavallotti 61
cell: 3669309334

mercoledì 9 novembre 2011

Recensione film "L'età barbarica"




L’età barbarica, commedia, 2007
di Denys Arcand (tit.orig. L'age des tenebres)


Denys Arcand si armonizza alla dimensione onirica evocata da una sala cinematografica e immerge lo spettatore in un limbo in cui “realtà scenica”  e “la fantasia scenica” si confondono. Riuscito espediente per fornire un amaro spaccato della condizione sociale impregnata di solitudine, incomunicabilità, fittizio appagamento nello stacanovismo,  fanatismi politically correct e discutibili e paradossali slogan motivazionali, privilegiati rispetto all’ascolto dei disagi altrui. I vuoti affettivi vengono così colmati dal protagonista Jean Marc, comune impiegato all’ufficio reclami, mediante un grottesco ma malinconico ricorso al sogno ad occhi aperti. Le  fantasie popolate da belle donne consentono una soddisfazione allucinatoria del bisogno erotico-affettivo e una gratificazione sostitutiva del desiderio di esistere ed essere visto come uomo, come padre. Il genere della commedia viene rispettato presentando a tratti una pellicola spassosa, ma ci si accorge presto che la soluzione trovata dal protagonista pare l’unica possibile. Riesce ad essere riconosciuto e a pacificarsi con sé stesso solo quando prende le distanze dal suo mondo, socialmente accettato e rinforzato, ma solo apparentemente. Bravo il regista, che non delude le aspettative dopo Le invasioni barbariche, e bravo Labrèche.

A cura della dottoressa Tiziana Carciotto
Psicologa - Via Siena 24, Catania


 

domenica 6 novembre 2011

Disturbo post traumatico da stress (PTSD)


Carissimi,

l'argomento di oggi è relativo ad un disturbo che colpisce soprattutto gli operatori dei servizi al cittadino che operano in contesti di emergenza, mi riferisco quindi al personale delle ambulanze, gli operatori di pubblica sicurezza, i soldati...tuttavia questo disturbo può essere riscontrato anche nel comune cittadino che ha assistito ad un evento traumatizzante (come è avvenuto, per esempio, ad alcuni newyorkesi che hanno visto cadere le torri gemelle nel 2001). Il disturbo post traumatico da stress è l'insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento. La diagnosi di PTSD necessita che i sintomi siano sempre conseguenza di un evento critico, ma l'aver vissuto un'esperienza critica di per sé non genera automaticamente un disturbo post-traumatico (per nostra fortuna!).  I criteri che caratterizzano questo disturbo sono diversi e riguardano il vissuto traumatico che riemerge con incubi, ricordi spiacevoli ricorrenti ed intrusivi, disagio intenso all'esposizione di fattori che ricordano o simboleggiano la situazione originaria. Oltre a questi elementi vi è un marcato evitamento di tutti gli stimoli che possano far ricordare l'evento-trauma, come per esempio l'incapacità a ricordare qualche aspetto importante del trauma, una riduzione dell'interesse e partecipazione ad attività significative, un'affettività ridotta, sentimenti di distacco verso gli altri, sentimenti di diminuzione delle prospettive future...Tutti questi sintomi (riportati qui solo in piccola parte) portano ad irritabilità, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, difficoltà ad addormentarsi. Molte persone si ritrovano a vivere esperienze traumatiche, ma non tutte sviluppano il disturbo post-traumatico da stress.

Da un recente studio, per esempio, è emerso che solo il 25% delle persone passate attraverso un evento traumatico con conseguenti lesioni fisiche aveva in seguito sviluppato il disturbo (Shalev et al., 1996). Si può quindi concludere che l'evento in sé non può essere l'unica causa del disturbo.
Attualmente la ricerca in questo campo sta tentando di individuare quali fattori distinguano gli individui che in seguito a un grave trauma sviluppano il disturbo post-traumatico da stress da quelli che non lo sviluppano. Il consiglio, concludendo, è quello di monitorare il proprio stato psichico e laddove si riscontrino sintomi simili a quelli soprariportati, si cerchi un aiuto per una loro rapida comprensione e risoluzione.

venerdì 28 ottobre 2011

Recensione film "Segreti di famiglia"





Segreti di famiglia,drammatico,2009
di Francis Ford Coppola(titolo originale “Tetro”)

Seppur la trama non sia singolare, la modalità ricostruttiva con cui si snoda Segreti di famiglia è distintiva del maestro. La scelta di raccontare il presente in un evocativo bianco e nero e il passato a colori, pare sottolineare l’incombente presenza di un passato che, per quanto si fatichi di allontanare, torna. La pellicola racconta infatti la pesantezza di taluni legami familiari attraverso una dinamica in cui si rincorrono l’esigenza della fuga e il bisogno di ricucire e di conoscere, che paiono solo a prima vista due soluzioni diverse. Il diciottenne Benne, (che ricorda molto Leonardo Di Caprio) si reca in un quartiere di Buenos Aires per ritrovare l’amato fratello maggiore Angelo – Tetro, scomparso da più di dieci anni da New York. Fra i due fa da mediatrice la splendida Miranda, discreta compagna di Tetro, che favorisce inconsapevolmente una ricomposizione familiare. Se il finale previsto dalla sceneggiatura, firmata dallo stesso Coppola, mette in scena lo svelamento di una verità presumibile e forse perfino in modo caricaturale, sottolinea però l’esito di un dramma esistenziale. La ricerca ostinata di “avvicinare” un modello - mito accomuna i due fratelli Tetrocini, ma con conseguenze diverse. Nel malinconico poeta Tetro, vittima del senso di colpa per aver causato la morte della madre, questa ricerca identificatoria obbliga alla fuga dalla figura paterna castrante e inavvicinabile. Lo spettatore assiste così allo sviluppo del significato della scelta di Tetro di interrompere i rapporti con la famiglia d’origine, che apre il film e trova un suo primo e possibile chiarimento nella scena in cui “Il Grande Uomo” (come lo definisce il protagonista stesso) informa il giovane figlio che “c’è spazio per un solo genio in questa famiglia”. Accompagnato da un gesto d’affetto questa frase sembra quasi sentenza che compendia la sofferenza dell’impossibilità di separarsi e individuarsi. Solo la morte reale del proprio padre potrà permettere a Tetro di confessare e vivere la propria paternità. Nell’ingenuo cuoco – marinaio Benne, questa ricerca di “avvicinare e ritrovare” un modello diviene autentica spinta, coraggio di violare e toccare con mani il segreto e l’intoccabile. Notevole la fotografia, diretta da Mihai Malaimare, bravi gli attori.


A cura della dott.ssa Tiziana Carciotto
Psicologa - Via Siena 24, Catania

mercoledì 26 ottobre 2011

Il nostro bambino relazionale

Carissimi,
oggi posto una citazione di Freud (1905, Tre saggi sulla sessualità) che, 
seppur breve, stimola diverse riflessioni personali-relazionali. 
 
"Zia, parlami! Ho paura, c’è tanto buio qui”. 

La zia gli rispose: “A che servirebbe? 
Tanto non puoi vedermi”.

“Non c’entra”, rispose il bambino, 
“se qualcuno parla, il buio scompare”

Ciò di cui aveva paura il bambino non era il buio ma l'assenza di 
qualcuno che amava; ed egli era certo di non aver più paura, appena avesse 
sentito la presenza di quella persona. 
Ma troppo spesso ignoriamo il bisogno di quel bambino che vive dentro di noi
e le relazioni interpersonali subiscono sofferenza e dolore...prestate attenzione
al vostro "bambino" interno... 
Buona giornata
dr Marco Santini
www.percorsipsicologici.com

venerdì 21 ottobre 2011

Recensione film "Terraferma"



Mi piace molto l’esplicitazione di psicoterapia come luogo in cui “delle tessere si incontrano e si incastrano dando un'immagine di sé più chiara e più consapevole”. Direi una immagine maggiormente integrata. Mi collego a ciò per parlare dell’integrazione seppur non nei termini di obiettivo terapeutico ma nei termini di integrazione tra culture, in particolare la possibilità di accogliere nei Paesi di appartenenza popoli che provengono da altre culture. Prendo volentieri in prestito la sensazione di grande confusione e disorientamento che mi ha lasciato la visione del film “Terraferma”, di Emanuele Crialese, per confessare quanto difficile è risultato il tentativo di prendere una posizione al riguardo, di trovarla dentro di me. Credo sia argomento di attualità molto denso e vasto quello dell’immigrazione clandestina, e si presta anche a posizioni retoriche. A caldo ho apprezzato molto la pellicola, ma ripensandoci ho fatto molta fatica a ritrovarmi in una posizione. Invito pertanto quanti interessati a vedere questo film per poter ricevere anche dei rimandi utili. Mi affido al cinema, non ho ricordo di molti film al riguardo.
Il regista Emanuele Crialese coraggiosamente lo affronta, così come Giorgio Diritti, in modo diverso, nel meraviglioso “Il vento fa il suo giro” (Italia, 2005). Chissà, in verità mi chiedo, se Crialese col suo ultimo film volesse davvero parlare e affrontare la spinosa questione, di certo l’impianto narrativo pare essere quello. Nella meravigliosa fotografia, grande protagonista è il mare, azzurro di giorno, nero di notte. Il mare attorno alla ferma Terra di un’isola siciliana. La terra è punto di partenza o punto di arrivo? Alla terra ci si aggrappa, come fa il protagonista che da sempre vive là, ma si aggrappano anche frotte di persone che dopo inenarrabili viaggi approdano a terra. Questa terra protegge ma anche cattura. Diventa un luogo isolato e privilegiato da cui è difficile staccarsi. Le parole del meraviglioso interprete Mimmo Cuticchio sono “Io non ci vado in ospedale” come se vivere là bastasse a tutto. Si vive sul mare e si vive di mare. Ma il mare ha anche delle regole, ma quali? “Non si lascia un uomo in mare”: questa legge si incontra/scontra con quella dello Stato che punisce coloro che aiutano e quindi favoreggiano l’immigrazione clandestina, e se "un tempo le decisioni si prendevano tutti insieme" la sensazione del film è di solitudine. Ci si trova soli, ognuno fa i conti con le proprie scelte. Il mare è frontiera che conduce al conflitto e il dilemma del film è che bisogna decidere, da soli, e facendo i conti con conseguenze e colpe in sospeso. Cosa salvare e chi salvare. . .?

A cura della dott.ssa Tiziana Carciotto
Catania - Via Siena 24

Recensione film "This must be the place"




Il titolo del nuovo film di Paolo Sorrentino contiene la chiave di lettura della sua ultima opera. Di nuovo il ritratto di un uomo al centro della narrazione, come già ne “Il divo”, e ne “Le conseguenze dell’amore”. Sean Penn ci regala l’interpretazione di una rock star che s’imprimerà a lungo nelle menti degli spettatori. Questa volta il personaggio è alla ricerca di se stesso, lungo un percorso che lo porta alla scoperta della propria identità. Il road movie del regista italiano non è privo di sbavature nella sceneggiatura (a volte confusa) e non sempre riesce a mantenere alta l’attenzione dello spettatore, ma è un film complesso,  mai banale, che fa interrogare sugli imperscrutabili processi che portano alla definizione dell’identità di ciascuno di noi. La macchina da presa segue S. attraverso gli Stati Uniti con un tono leggero. Il suo viaggio, per quanto scandito da incontri improbabili e da dialoghi grotteschi, culmina nel forte impatto drammatico della scena finale: il vecchio di 95 anni, ex-nazista, che cammina sulla neve per espiare le proprie colpe, mette in evidenza tutta la fragilità della condizione umana, ed è un’immagine che difficilmente potrà venire dimenticata.
Alla fine del suo percorso C. sembra potersi riappacificare con l’identità del padre e quindi con la propria, potendo così dismettere i panni indossati durante la ribellione dell’adolescenza e mai più riposti. This must be the place: quel luogo metaforico, che può essere trovato alla fine di un percorso interiore, un viaggio analitico, ma che segna un nuovo inizio, libero dalle costrizioni della coazione a ripetere.
L’uso eccellente della fotografia e il delicato utilizzo della colonna sonora, come sempre azzeccata, contribuiscono ad accrescere il valore dell’opera ultima di Sorrentino, che fa centro ancora una volta.

A cura del dott. Damiano Bertolino
Padova - Via Cavallotti 61
cell: 3669309334

martedì 18 ottobre 2011

Quando fare una psicoterapia?


Carissimi,

oggi vorrei spendere due parole su un tema che spesso è menzionato nelle domande che mi giungono per e-mail, ossia quando è necessario fare una psicoterapia e soprattutto la paura di intraprendere un percorso sconosciuto e, molto spesso, anche temuto. Credo che le paure in gioco siano diverse, soggettive, relative alla propria storia, ma spesso emerge anche una paura legata al fatto che non si sa cosa cosa ci si aspetta da questo passo così importante. Spesso ci sono paure di dipendenza (devo dipendere dal mio psicoterapeuta), di intrusione (non voglio che mi si legga nel pensiero), preconcetti (è per i matti, io sto benissimo!). Ora, io ritengo che la psicoterapia sia invece un momento della vita della persona in cui il soggetto vuole fare un pò di chiarezza su cosa non va, un percorso in cui, con l'ausilio di una persona esperta, si intraprende un viaggio alla scoperta di parti di sè sconosciute, messe in ombra, di cui non si è mai voluto forse sapere troppo ma che ci parlano fin troppo (con i sintomi, con il malessere). Tenendo a mente questa visione, allora la psicoterapia non è più un'esperienza da temere, ma un momento che può far accrescere maggior consapevolezza di sè e per certi versi è un momento anche di crescita personale. Un momento dove le proprie tessere del proprio puzzle, chiamato vita, si incontrano e si incastrano dando un'immagine di sè più chiara e più consapevole delle varie parti che ci caratterizzano come individui.

giovedì 13 ottobre 2011

Ansia, ansia, ansia......

I disturbi d'ansia sono stati per lungo tempo considerati forme di nevrosi, ovvero un insieme molto vasto di disturbi caratterizzati da ansia non legata a ragioni obiettive e da altri problemi associati. Questi disturbi vennero concettualizzati grazie al lavoro clinico svolto da Sigmund Freud sui suoi pazienti; di conseguenza, la categoria diagnostica delle nevrosi finì per essere inestricabilmente connessa con la teoria psicanalitica. Inizialmente vennero inseriti nel gruppo delle nevrosi disturbi molto diversi fra loro, utilizzando come criterio diagnostico il fatto che alla base di tutti vi fosse un problema di ansia rimossa.
Col trascorrere del tempo diversi psicopatologi iniziarono a mettere in discussione l'opportunità di mantenere in vita il concetto di nevrosi, dato che era diventato talmente esteso e onnicomprensivo da svuotarsi di ogni significato quale categoria diagnostica. A partire dalla terza versione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), e specialmente nella quarta (ed ultima, allo stato presente), le vecchie categorie delle nevrosi vengono redistribuite tra nuove e più precise categorie diagnostiche; fra queste i disturbi d'ansia. Non c'è solo un ansia "cattiva", l’ansia "buona", fisiologica e funzionale rappresenta una sollecitazione che ci muove e ci fa selezionare gli stimoli con maggiore attenzione.
In realtà non potremmo vivere senza ansia e senza di essa molte emozioni sarebbero più sbiadite, meno intense e suggestive.
Pensiamo ad un incontro con una persona che ci attrea e ci interessa e al corollario di emozioni che accompagna questo evento…
L’ansia può essere quindi uno strumento un limite a seconda dell’uso che ne facciamo o del modo in cui la viviamo.Se però ci costringe a vivere le situazioni con preoccupazione, ad evitarle (fobie) o a rinchiuderci in noi stessi, allora è il caso di affrontarla rivolgendosi ad uno specialista.

dr Marco Santini
www.percorsipsicologici.com