mercoledì 27 novembre 2013

Nonno Diamantino


Carissimi,

oggi pubblichiamo con estremo piacere un racconto scritto dall'amica Tiziana, autrice di fiabe e scritti per bambini, che ha voluto condivedere con noi un breve racconto. Spero sia il primo di una lunga serie, le fiabe, infatti, hanno un grande valore comunicativo e relazionale, importanti per la crescita dei bambini ma anche dei grandi. Buona lettura!




Sappiamo bene cosa significhi comunicare, ma quanto sappiamo comunicare in maniera efficace? Diventiamo abili comunicatori quando, a fronte di lunghi e costanti allenamenti, conseguiamo la capacità di decentrarci concentrando buona parte della nostra attenzione su chi dovrà ricevere il messaggio comunicativo...

Nonno Diamantino è speciale, unico.

Se ne sta in poltrona tutto il pomeriggio col gatto Bartolomeo in grembo e da lì, seduto, scruta il mondo che gli ruota lentamente intorno.

Nonno Diamantino è un tuffo nel passato, in un mare di saggezza.

Sa fare cose mirabolanti, restando fermo in silenzio. Con lo sguardo dipinge, con i gesti racconta e con il cuore insegna.

Seduta all'indiana sul tappeto, resto ferma in silenzio: lo osservo con ammirazione.

Nonno Diamantino ha mani callose perché ha coltivato la terra con amore e dedizione. La passione, che riempiva il suo cuore, ha reso le sue mani forti e gentili.

Ha la pelle color cioccolata al miele perché il sole estivo l'ha dorata, mentre seminava il campo. Con il capo chino, nutriva il suolo e vi metteva un seme che avrebbe dato frutto.

Ha gambe snelle perché ha inseguito per mari e per monti i suoi sogni: tenace nel suo intento non si è mai scoraggiato, neppure quando le forze lo stavano abbandonando e a malapena riusciva a reggersi in piedi.

Ha braccia grandi perché ha stretto a sé le persone cui voleva bene. Il suo abbraccio forte, legava e sosteneva senza stringere.

Ha grandi occhi e un paio di occhialoni perché nella sua vita ha visto una miriade di cose, come gli aerei panciuti sorvolare il cielo plumbeo e il sorgere del sole, sbirciato da una finestrella scavata nel ghiaccio, lassù sulle vette delle montagne. Il nemico gli ha teso la mano. Hanno condiviso un pezzo di pane secco.

Nonno Diamantino calza un paio di scarpe logore perché ha camminato tanto, ed ha esplorato innumerevoli vie e sentieri. A volte in salita, a volte in discesa. Non si separerebbe mai dalle sue compagne di viaggio. Un filo invisibile le lega a lui, di là da ogni aspetto esteriore.

Ha il volto sorridente perché ha saputo gioire per le notizie liete e ha condiviso la sua gioia con gli altri.

Ha le rughe sul viso, perché il tempo non si è mai fermato. Ogni piega è un coriandolo che colora le sue giornate.

Nonno Diamantino non ha bisogno di un bastone a suo sostegno, lui e la nonna si tengono per mano e quando il passo si fa lento, si fermano a riposare.

Nonno Diamantino è speciale perché senza parlare, restando fermo in silenzio mi ha raccontato la fiaba più bella che un nonno potesse mai raccontare.

Nonno Diamantino è unico al mondo perché non mette mai la parola fine alle sue favole.

Con un gesto t'invita a sederti vicino a lui.

Non puoi immaginare quanto ancora ha da raccontarci.

A cura di Tiziana Compagnoni
autrice di Officina della Narrazione

domenica 8 settembre 2013

Recensione film "La migliore offerta"



Carissimi,

nel riprendere la nostra attività lavorativa dopo la pausa estiva, riprendiamo anche i nostri lavori su questo blog. Pubblichiamo oggi la recensione dell'ultimo film di Tornatore, visto e recensito per l'occasione dal dott. Bertolino. Vi ricordiamo che potete scriverci per segnalarci temi o argomenti di cui parlare.
Non mi resta che augurarvi una buona lettura!



Uno dei film meglio realizzati, visti nel 2013, è a mio avviso, proprio l'ultima opera di Giuseppe Tornatore. Un battitore d'aste, (Virgil Oldman), che è anche un collezionista di quadri, soffre di un fortissimo disturbo ossessivo compulsivo che lo porta a circondarsi di un numero infinito di oggetti dal valore inestimabile. Essi sostituiscono la compagnia degli altri esseri umani. Egli infatti trascorre la sua vita isolato, innalzando una barriera tra sé e gli altri, la cui maggiore espressione è manifestata dal suo bisogno di uscire di casa indossando imprescindibilmente i guanti, per proteggersi dal contatto. Il suo è un mondo asettico, sotto formalina. Le sole donne con cui trascorre parte del suo tempo sono quelle ritratte nei quadri. L'Unica eccezione a questo affresco di solitudine è incarnata da un amico che lo aiuta ad impossessarsi, in maniera impropria, delle opere di cui Virgil è battitore nelle aste e che, proprio per questo motivo, egli deve far finta di non conoscere.

La vita di quest'uomo cambia radicalmente quando sulla scena compare una donna tanto misteriosa quanto problematica. Il suo disturbo consiste di una fortissima agorafobia che le impedisce di uscire, non solo di casa, ma addirittura dalla sua stanza. Il rapporto che poco a poco si viene a costituire tra i due e che rende la donna particolarmente intrigante agli occhi del protagonista, è la condivisione di una condizione psicopatologica estremamente intensa per entrambi.

Ispirato, per certi versi, al Genio della truffa di Ridley Scott, questo film è caratterizzato da elementi di pura bellezza che non sminuiscono l'effetto di presa sullo spettatore: la recitazione di Geoffrey Rush è da oscar, la ragazza (Sylvia) è di un'avvenenza disarmante e la sceneggiatura è pensata in ogni minimo dettaglio, un congegno nel quale i singoli pezzi, proprio come avviene per il robot del film, una volta uniti fra loro fanno risultare un quadro complessivo ben diverso da ciò che ci si poteva aspettare inizialmente.

Nonostante il finale riservi un'amara sorpresa, l'esperienza vissuta dal protagonista si pone come un'apertura al cambiamento, uno sguardo aperto sul futuro e su ciò che esso può riservare a tutti noi. Incerto e imprevedibile, ma vivo, non asettico, sterilizzato e sotto formalina come il mondo in cui vive il protagonista all'inizio della storia.

 
A cura del dott. Damiano Bertolino
Padova - Via Cavallotti 61 

cell: 3669309334

mercoledì 31 luglio 2013

“Kaizen, Benessere e miglioramento aziendale: una filosofia orientale al nostro servizio”


Oggi vorrei parlarvi del Kaizen, una filosofia orientale che se fosse sempre praticata all'interno delle varie realtà lavorative, creerebbe un clima aziendale sereno e altamente produttivo.


Buona lettura!

Come psicoterapeuta, mi occupo quotidianamente di benessere psicologico delle persone che mi contattano per svariati problemi, derivati sia dai conflitti familiari sia da quelli più legati all’ambito di lavoro (stress, mobbing, problematiche relazionali…).

Ma come si può prevenire il disagio vissuto all’interno delle proprie realtà lavorative?

Con un approccio al mondo del lavoro diverso e con una visione più aperta sia da parte dell’azienda che dei singoli che ne fanno parte, in una parola sola, attraverso il Kaizen.

Questo termine deriva dall’industria giapponese e significa “miglioramento continuo”. In psicologia del lavoro, si fa riferimento al kaizen per migliorare i processi produttivi, il benessere psicologico aziendale a partire dalla base sino a raggiungere i vertici della piramide aziendale.

La visione del Kaizen è quella del rinnovamento a piccoli passi, da farsi giorno dopo giorno, con continuità, in radicale contrapposizione con concetti quali innovazione, rivoluzione e conflittualità di matrice squisitamente occidentale. La base del rinnovamento è quella di incoraggiare ogni persona ad apportare ogni giorno piccoli cambiamenti il cui effetto complessivo diventa un processo di selezione e miglioramento dell’intera organizzazione. Il Kaizen è un processo quotidiano il cui scopo è il miglioramento dell’efficienza produttiva soprattutto attraverso l’ umanizzazione del posto di lavoro. Secondo l’approccio Kaizen, l’umanizzazione del posto di lavoro, ad ogni livello e coinvolgendo qualunque processo aziendale, comporta un aumento della produttività: l’idea è quella di nutrire le risorse umane dell’azienda elogiandole ed incoraggiandole alla partecipazione delle attività legate alla Qualità.

Presupposti necessari (per altro non sufficienti) al coinvolgimento totale dei singoli alla realizzazione degli scopi dell’Organizzazione sono:

1) La costruzione dei processi aziendali attraverso il massiccio ricorso al Team Work;

2) La trasformazione del management aziendale da Controller a Team Leader con spostamento del recruitment verso soggetti capaci di leadership carismatica e di coaching;

3) Il potenziamento dei momenti di ascolto e dei canali comunicativi tanto interni quanto esterni (reporting, auditing, monitoring, B2B relationship, stakeholders embedding, customer relationship management, etc.);

4)L’implementazione di riunioni periodiche dedicate al miglioramento (Kaizen Events) che non si limitano alla c.d. Management Review prevista dalla EN ISO 9001 ma che avvengono settimanalmente a livello di team;

5) La gestione del cambiamento (Change Management) attraverso delle sessioni dedicate (Blitz Kaizen) affidate al Quality Manager che ne cura la preparazione, la gestione e le attività di follow-up in veste di facilitatore.

Il personale dell’Organizzazione, dal C.E.O. fino all’addetto alle pulizie, tanto quanto tutti gli stakeholders (per i processi ad essi dedicati), è tutto inderogabilmente coinvolto nel processo di miglioramento e nella gestione della Qualità.

Questo naturalmente può avvenire se la stessa azienda permette e accetta un cambiamento portato quotidianamente dai singoli lavoratori. In Italia, capita di sovente, infatti, di incontrare realtà chiuse, non aperte all’innovazione e spaventate dall’idea di cambiare, anche se questo può portare un miglioramento nei processi e nel lavoro aziendale, oltre ad un benessere collettivo percepito dai dipendenti.

L’auspicio che possiamo fare è quello di avere una visione personale più aperta nel nostro approccio al mondo del lavoro che ci permetta di viverlo non solo come un dovere, un obbligo, ma un’opportunità di crescita personale e aziendale, nella speranza di avere altresì alle nostre spalle un ambiente lavorativo che ci faciliti in questo processo di crescita e di trasformazione.

lunedì 24 giugno 2013

La motivazione personale e la comunicazione interna

Carissimi,

oggi pubblichiamo un articolo del dott. Pisano, HR consultant, inerente la motivazione e la comunicazione interna nelle aziende.

Buona lettura!



L’importanza della comunicazione interna aziendale è stata teorizzata e messa in pratica già da molti anni da grandi studiosi di sociologia, comunicazione e psicologia del lavoro. Questo strumento è infatti fondamentale per migliorare la motivazione del personale e, più in generale, la gestione delle risorse umane.

Nonostante la comunicazione aziendale sia stata identificata come uno degli elementi chiave che incide sulla produttività, le aziende che pongono in atto strategie di comunicazione interna sono ancora poche. È stata di solito utilizzata solo per alcuni settori aziendali, come per es. la forza vendita o la struttura commerciale, mentre difficilmente è possibile imbattersi in piani di comunicazione interna strutturati e complessi, che si pongono l’obiettivo di raggiungere l’intera popolazione aziendale.

Tramite una comunicazione interna ben architettata, ciascun lavoratore percepirà di prendere parte agli obiettivi aziendali tramite il suo contributo di essere fautore di una qualità diffusamente riconosciuta e di partecipare ai successi aziendali sia che esso faccia parte del management, sia che il suo ruolo non preveda responsabilità elevate.

Non bisogna sottovalutare, però, che la comunicazione interna aziendale, come ogni forma di comunicazione, è costituita da due flussi. Il professionista di questo settore dovrà essere in primis un ottimo ascoltatore e osservatore della realtà che lo circonda. L’osservazione delle discrepanze tra i desiderata e le azioni effettivamente intraprese in azienda, può essere un ottimo indicatore per evitare errori di comunicazione.

Molte aziende, purtroppo, ancora oggi credono che sia sufficiente l’adozione di uno strumento di supporto alla comunicazione interna (come le intranet aziendali) per sopperire all’assenza di strategia. Questa situazione si è aggravata negli ultimi anni a causa della diffusione di software gratuiti (e validi) per la creazione di intranet aziendali.

L’incoerenza tra i valori dichiarati dall’azienda e le sue azioni, non solo non aumenta la motivazione del personale ma produce addirittura effetti negativi. In alcuni casi si può arrivare ad una insoddisfazione delle risorse con un duplice costo:

1. La fuoriuscita del personale più qualificato (che riesce facilmente a ricollocarsi)

2. I costi del non turnover, cioè i costi generati dalla mancata uscita di un lavoratore insoddisfatto, la cui permanenza nell’organizzazione può avere conseguenze sulla produttività e sul clima aziendale.



A cura del dott. Salvatore Pisano
Hr Consultant - Milano
http://about.me/pisanosalvatore

mercoledì 19 giugno 2013

La creatività nella malattia di Parkinson: È una sostanza chimica che stimola le nostre capacità artistiche?



Carissimi,

dopo alcuni mesi di intenso lavoro che ci hanno tenuti lontani da voi e dal nostro blog, è con piacere che pubblichiamo oggi un interessante articolo della collega Fumagalli inerente la creatività nella malattia di Parkinson e il ruolo dei farmaci.

La dott.ssa Manuela Fumagalli è una psicologa esperta in problematiche della terza età e specializzata in neuropsicologia. Lavora presso il servizio di neuropsicologia dei disordini del movimento del Policlinico di Milano e come libera professionista svolge riabilitazioni cognitive a Milano e provincia.

Buona lettura!



Che cos’hanno in comune Salvador Dalì, eccentrico pittore surrealista, e Charles Schulz, disegnatore americano di fumetti e inventore del famoso personaggio di Charlie Brown? Le opere artistiche di entrambi sono famose in tutto il mondo, certo, ma forse non in molti sanno che entrambi questi artisti avevano la malattia di Parkinson.

Il legame tra malattia di Parkinson e creatività è ancora oscuro, tuttavia i ricercatori si stanno interrogando su questi temi, anche alla luce di nuove interessanti osservazioni e nuovi risultati scientifici.

Per chi vive con il Parkinson perché ne è affetto, perché ha un familiare che ne soffre, o perché, come i medici, gli psicologi o i fisioterapisti, ci lavora quotidianamente, è abbastanza frequente incontrare qualcuno che dopo la diagnosi di malattia di Parkinson racconti di aver iniziato a disegnare, scrivere, scolpire, senza aver mai avuto prima inclinazioni artistiche.

Si tratta di una semplice casualità o di un fenomeno che merita di essere studiato e approfondito?

Gli studiosi si sono accorti negli ultimi anni di questo filo rosso che collega la malattia di Parkinson con la creatività e si sono domandati quale sia l’origine di questa relazione, in particolare quale sia il ruolo svolto dalle terapie farmacologiche e dalla stimolazione cerebrale profonda (DBS).

Le terapie farmacologiche per il Parkinson includono principalmente i farmaci dopaminergici, ovvero dopamina e dopamino-agonisti. Questi farmaci possono indurre in alcuni pazienti la così detta “sindrome da disregolazione dopaminergica” ovvero la tendenza ad abusare di tali farmaci aumentando la quantità e la frequenza delle dosi senza che ciò sia stato consigliato dal neurologo. Questo sintomo rientra in una più ampia categoria di disturbi, i “disturbi del controllo degli impulsi”, che includono il gioco d’azzardo patologico, gli acquisti compulsivi, l’alterazione del comportamento sessuale, e ogni altro comportamento in cui il soggetto si sente incapace di resistere a un impulso, ad un desiderio impellente, o alla tentazione di compiere un'azione pericolosa per sé e per gli altri. In genere, il soggetto avverte una sensazione di eccitamento prima di compiere l'azione e in seguito prova piacere, gratificazione nel momento in cui esegue l'azione.

Vi sono diversi casi riportati in letteratura in cui pazienti con malattia di Parkinson senza precedenti inclinazioni artistiche o che già le possedevano prima dell’esordio, hanno iniziato ad abusare dei farmaci dopaminergici assumendone sempre dosi maggiori poiché questo favoriva la loro produttività artistica.

Esempio suggestivo di una relazione tra farmaci e creatività è il caso di un paziente, pittore amatoriale fin da prima dell’esordio della malattia, la cui produttività artistica variava in base al dosaggio di farmaco dopaminoagonista. Quando il paziente assumeva dosi molto alte di farmaco, dipingere era il suo unico interesse, a cui si dedicava giorno e notte trascurando la famiglia, la vita sociale e anche il sonno. Trovato il giusto dosaggio di farmaco, il paziente ha continuato a coltivare la sua passione artistica ma in modo più moderato (Kulisevsky et al., 2009).

Persone che svolgono attività e professioni artistiche che sviluppano la malattia di Parkinson sono quindi maggiormente a rischio di sviluppare una dipendenza da farmaci dopaminergici. Vi sono tuttavia altri fattori, quali l’esordio giovanile della malattia, il sesso maschile, il consumo di alcool in grandi quantità, l’uso di droghe e la presenza di disturbi psichiatrici che aumentano tale rischio.

La terapia dopaminergica dunque sembra essere in grado di intervenire sui processi creativi, sviluppando capacità artistiche prima mai manifestatesi o alterandole, fino a livelli patologici.

Se la creatività nel Parkinson fosse soltanto una manifestazione del disturbo da disregolazione dopaminergica, allora i pazienti creativi dovrebbero mostrare anche altre alterazioni comportamentali.

Ricercatori italiani si sono domandati se l’inclinazione artistica di alcuni pazienti sia da considerarsi una compulsione priva di qualsiasi valore artistico oppure se si tratti di un talento artistico silente che emerge grazie alla terapia farmacologica. Infatti, alcune caratteristiche dell’attività artistica di questi pazienti, come il dedicare la maggior parte della giornata alla nuova attività trascurando la famiglia, gli amici e i doveri e impegni quotidiani, potrebbero somigliare a un disturbo del controllo degli impulsi.

I ricercatori hanno quindi confrontato un gruppo di parkinsoniani con produzione artistica con parkinsoniani senza tali inclinazioni artistiche e con un gruppo di controllo di soggetti sani non artisti, facendo rispondere a questionari per l’individuazione di comportamenti compulsivi e di pensiero creativo. Il risultato è stato che i “parkinsoniani artisti” non presentavano un aumento di comportamenti compulsivi o impulsivi, e il loro pensiero creativo era maggiore rispetto ai pazienti parkinsoniani non artisti. Gli autori hanno espresso l'ipotesi che la terapia dopaminergica potrebbe indurre un talento innato a manifestarsi in soggetti con predisposizione artistica (Canesi et al., 2012).
Questo studio sembra portarci finalmente una buona notizia: la terapia dopaminergica non induce solo effetti collaterali negativi (il gioco d’azzardo, allucinazioni, ipersessualità), ma anche un effetto positivo, la creatività.

Cosa possiamo dire invece sugli effetti che ha DBS ha sulla creatività?

Sono descritti in letteratura due casi di pazienti con produzione artistica e con stimolazione cerebrale profonda (DBS): in un caso, una pittrice con malattia di Parkinson da 20 anni dopo essersi sottoposta ad intervento per DBS lamentò che la stimolazione peggiorava la qualità dei suoi dipinti (Drago et al., 2009); in un altro caso, un pittore dopo la DBS modificò completamente i soggetti e lo stile dei suoi disegni (Inzelberg, 2013).

Uno studio francese ha confrontato un gruppo di pazienti parkinsoniani creativi con un gruppo di pazienti parkinsoniani non creativi prima ed un anno dopo l'intervento di DBS. Tra i pazienti creativi, l’inclinazione artistica in alcuni era presente già prima di sviluppare la malattia, in altri si era presentata dopo l’assunzione di farmaci dopaminergici. I ricercatori hanno riscontrato che i pazienti creativi assumevano mediamente dosi nettamente superiori di farmaci dopaminoagonisti prima dell'intervento. Non vi erano invece differenze nella presenza di disturbi del controllo degli impulsi (gioco d’azzardo, acquisti compulsivi, ipersessualità, irritabilità). Dopo l'intervento, il dosaggio dei farmaci è stato ridotto drasticamente in entrambi i gruppi in seguito ad un miglioramento della funzione motoria e la creatività è scomparsa in tutti i pazienti tranne uno (Batir, 2009). Questo risultato può significare sia che la creatività possa essere stata annullata dalla riduzione dei farmaci, sia che la DBS sia responsabile della perdita delle capacità creative.

Un'altra questione rimane aperta: non tutti i malati di Parkinson sviluppano la creatività, perché? Vi sono delle caratteristiche per cui alcuni pazienti sviluppano questi tratti, mentre altri non lo fanno?

Una migliore comprensione delle basi neurologiche della creatività umana e il progresso nella ricerca sulle modificazioni comportamentali della malattia di Parkinson potranno forse risolvere questo problema.




A cura della dott.ssa Manuela Fumagalli

Via Monte Grappa 272, 20099 Sesto San Giovanni (MI)
www.percorsipsicologici.com
cell: 327-1643917



Bibliografia

· Batir A 13° Convegno Internazionale della Movement Disorder Society, Parigi, giugno 2009 Abstract Mo-163

· Canesi Rusconi, Isaias, Pezzoli, Artistic productivity and creative thinking in Parkinson’s disease, European Journal of Neurology, 2012, 19: 468–472.

· Drago, Foster, Okun, Cosentino, Conigliaro, Haq, Sudhyadhom, Skidmore , Heilman, Turning off artistic ability: The influence of left DBS in art production, Journal of the Neurological Sciences, 2009, 281: 116–121.

· Inzelberg, The Awakening of Artistic Creativity and Parkinson’s Disease, Behavioral Neuroscience, 2013, 127, 2: 256–261.

· Kulisevsky, Pagonabarraga, Martinez-Corral,Changes in artistic style and behaviour in Parkinson’s disease: dopamine and creativity, J Neurology, 2009, 256:816–819. 




lunedì 4 marzo 2013

Le Vostre Domande


Carissimi,

oggi vorrei riflettere con voi in merito alla richiesta di aiuto e ai vari passaggi e difficoltà che molto spesso la caratterizzano. Lo farò utilizzando una lettere di un uomo che mi ha scritto giorni fa via mail. Di seguito il testo della richiesta:


"spero di decidermi a venire ne avrei bisogno visto la mia grande confusione che ho nella testa e per vari problemi che credo hanno cambiato la mia vita in parte in meglio ma molto ma molto anche in peggio , ok spero questo messaggio l'abbia letto il dott.Santini"


E' evidente che questa persona ha una necessità di confrontarsi circa questo malessere che  gli sta creando difficoltà e confusione, tuttavia non fa una richiesta di appuntamento o non accenna a questa eventualità. In questi casi, credo che questo passaggio sia ancora in fase embrionale, ossia presente all'interno del soggetto ma non ancora sufficientemente sviluppato per poterlo esprimere all'interno di una relazione adulta. Nel caso specifico, questo uomo non ha più fatto sentire la sua "voce" e io non ho ritenuto opportuno andare oltre alle informazioni del caso (orario della seduta, costo, come fare per fissare un appuntamento...). E' importante, infatti, che la prima richiesta di aiuto venga proprio dalla persona, una volta che si è decisa a farsi aiutare, diversamente, se la persona fosse spinta dall'esterno (familiari, amici, parenti) questo elemento di immaturità e non accettazione di un aiuto esterno ("mi hanno portato loro qui", "io non ho bisogno di nessuno"...) potrebbe poi far terminare anzitempo il sostegno psicologico.

Alla prossima

giovedì 31 gennaio 2013

Recensione film "A dangerous method"


Carissimi,

oggi pubblichiamo sul blog la recensione di un film uscito qualche mese fa su un tema a noi molto caro, la psicoanalisi. Il film è stato recensito dal collega Bertolino. Buona lettura!




Il film di Cronenberg che parla della psicoanalisi, più che concentrarsi sulle peculiarità di questa disciplina, oggetto della sua riflessione, si focalizza sul rapporto tra Freud e Jung e sul dissidio tra questi due personaggi.

Il metodo inventato dal medico viennese, che nel titolo viene definito pericoloso "Dangerous", sembra produrre degli effetti collaterali non trascurabili su chi lo esercita, se applicato in maniera impropria. Jung, infatti, attratto dal fascino di questa nuova scienza e subendo il carisma di Freud, con cui intrattiene un rapporto epistolare e che incontra di persona solamente in un paio di occasioni, intraprende la cura di una ragazza gravemente nevrotica (Kira Knightly), ma tra i due si accende una passione da che il medico svizzero non riesce ad arginare.

L'innamoramento per il proprio terapeuta è, oggi, un fenomeno noto al mondo della psicoanalisi, ma la sua scoperta, ad opera di Freud, che lo designò con il termine di "transfert" fu una vera e propria rivoluzione. Il film mostra come Jung, nonostante gli avvertimenti del suo maestro non sappia prendere le distanze e rispettare la "neutralità terapeutica", presupposto fondamentale per un corretto esercizio della "talking cure" e una prosecuzione della relazione analitica vantaggiosa per il paziente.

Il dissidio tra i due personaggi, sul modo di intendere la psiche e l'eziologia della nevrosi si consuma poco a poco, fino ad arrivare ad una vera e propria rottura e alla scissione operata da Jung, che costituirà una profonda ferita per Freud. Egli aveva infatti visto in lui il suo possibile successore alla guida del movimento psicoanalitico. Non è difficile capire per chi parteggi il regista, in quest'aspra diatriba; il personaggio di Jung viene delineato come un'abile arrivista, più interessato alle sue possibilità di carriera che non al progresso della scienza; una persona ricca, snob, preda delle passioni e visionaria al confronto di un uomo (Freud), perfettamente equilibrato tanto nelle passioni, quanto nei ragionamenti.

Non è la prima volta che il regista canadese si cimenta in un'opera dai risvolti psicoanalitici. In Spider avevamo assistito ad una rappresentazione magistrale delle teorie kleiniane sui meccanismi della scissione e della proiezione. La totale mancanza di imparzialità di giudizio presente dall'inizio alla fine di A dangerous method è, però, il principale difetto di un film molto ben recitato (Keira Knightly è superlativa nel ruolo di una donna isterica e Viggo Mortensen più che credibile nei panni di Freud).

Certo, è difficile credere che una donna con una patologia grave come quella che fa innamorare di sé Jung possa essersi risolta con la sola talking cure, tanto più se si considerano gli effetti della relazione giocata tra il medico e la paziente. Ma quando si deve rappresentare la psicoanalisi è praticamente impossibile non operare una banalizzazione di questa disciplina così complessa e articolata, perché la materia di cui tratta, la psiche umana, è il più misterioso tra tutti gli oggetti di conoscenza. E solo chi ha avuto a che fare con essa, come medico o come paziente, può averne esperienza.

A cura del dott. Damiano Bertolino


Padova - Via Cavallotti 61
cell: 3669309334