martedì 21 febbraio 2012

Disturbi del comportamento alimentare (DCA)


Carissimi,

oggi volevo fare una breve considerazione sui disturbi del comportamento alimentare, tematica oggigiorno molto frequente e piuttosto spinosa. Mi capita, nella pratica clinica, di avere a che fare con questi problemi, visto che parte della mia formazione passata si è proprio concentrata su questi problemi che mi hanno colpito per diversi aspetti.
L'elemento che spesso emerge di questo disagio è senza dubbio il forte filo conduttore che ha con le questioni familiari, capita, infatti, di sovente che il dca si espressione di un malessere molto spesso più collettivo che riguarda anche altri elementi del proprio nucleo familiare. Credo, infatti, che sia l'anoressia o la bulimia siano sostanzialmente facce della stessa medaglia, medaglia che è stata "forgiata" e "composta" dalle relazioni passate dell'individuo (molto spesso di sesso femminile e di giovane età). Qui, mi si potrebbe obiettare dicendo: "Ma la colpa è sempre dei genitori!". Non amo dare la colpa a nessuno, tanto meno ai genitori, che spesso in questi casi si prodigano molto per la propria figlia (o figlio), ma sicuramente, anche se non ci sono colpe, ci sono delle grandi responsabilità. Infatti, non sempre vi sono genitori attenti ai segnali con cui i dca si manifestano, come disertare la tavola o non curarsi delle crescenti "manie" sul cibo del proprio caro o alla crescente attività fisica. Ritengo che per sconfiggere i dca ci debba essere un grande amore da parte dei genitori e familiari, perchè spesso questi problemi sono segnali di una "fame d'amore" che l'individuo manifesta attraverso il cibo.
Il cibo è anche il primo dono che un individuo riceve appena nasce, attraverso il latte materno. Credo che la valenza simbolica di questo non sia da sottovalutare, infatti attraverso il cibo si veicola anche una relazione (madre-bambino, in primis, ma successivamente anche nell'ambito sociale) che, se non sufficientemente sana ed equilibrata, può poi portare a disagi in età adulta (non solo nell'ambito dei dca).

sabato 11 febbraio 2012

Recensione film "Shame"




Oggi pubblichiamo la recensione cinematografica del dott. Damiano Bertolino. Buona lettura!



Shame delinea il ritratto di un uomo perfettamente adattato alla realtà frenetica e anonima di una città come New York, simbolo del mondo occidentale moderno. Brandon vive in un bellissimo appartamento nel cuore di Manhattan, veste in maniera sempre molto elegante ed è dotato di carisma e savoir fair. Ma sotto quest’apparenza rispettabile si cela un’ossessione profonda per il sesso. Il suo iper-adattamento è una maschera sotto la quale si cela un disturbo che non lascia spazio a nient’altro. Ciò a cui quest’uomo pensa in continuazione è la ricerca dell’orgasmo. Che tale sensazione possa essere raggiunta attraverso rapporti con prostitute, davanti al computer o perfino con uomini, poco importa. Quel che conta è l’annullamento delle sensazioni e del pensiero. Questa è, però, un’operazione impossibile e Brandon si trova, così, a dover ricorrere a pratiche masturbatorie frenetiche e compulsive, senza riuscire mai ad estinguere il demone che lo pervade. Per questo soggetto, passato presente e futuro sono annullati (anche il regista non ci mostra, e non ci fa nemmeno intuire, qualcosa sulla storia passata di questo personaggio). Queste tre dimensioni coincidono in una coazione a ripetere, in cui il contatto con l’altro deve essere sporadico e occasionale. La fissità del protagonista cancella la possibilità di un’evoluzione. Lungo tutta la durata del film, l’unico barlume di cambiamento è intravisto nella relazione con una ragazza di colore, dalla quale però si ritira angosciato, poiché essa rischia di diventare una relazione autentica, mettendo in gioco qualcosa di più profondo di un godimento immediato.
La solitudine in cui è intrappolato quest’uomo è poi messa alla prova dall’irruzione indesiderata della sorella. Anche con lei Brandon mostra la sua incapacità di stabilire un dialogo; il contatto con questa figura può avvenire esclusivamente attraverso uno scontro, non solo verbale.
Su tutto, regna un godimento che non procura piacere, ma sofferenza, e che trasporta sempre di più lo spettatore nel mondo di questo personaggio disperato. Lo sguardo della macchina da presa si deposita senza sosta sulla frenesia dei suoi atti sessuali, ma invece di procurare piacere o eccitazione nello spettatore, genera angoscia e desiderio che tutto ciò finisca, rivelando, così, l’estrema sofferenza provata dal protagonista del film.

A cura del dott. Damiano Bertolino
Padova - Via Cavallotti 61
cell: 3669309334

mercoledì 8 febbraio 2012

Lo psicologo via skype: di chi è il problema???


Carissimi,

oggi volevo condividere con voi una riflessione circa il mondo delle consulenze online che si possono trovare oggigiorno sul web di professionisti, più o meno qualificati, che offrono le loro prestazioni, consulenze direttamente dal web senza nemmeno un incontro reale di persona in studio.
Per prima cosa ritengo che, con una buona dose di buon senso, non si debba generalizzare e quindi mi permetto di escludere dalla mia considerazione tutte quelle forme di aiuto via web legittimato da un reale problema o difficoltà, mi riferisco per esempio ai giovani adolescenti vittime di un isolamento sociale molto forte, per cui l'unica forma di contatto possibile è realmente un'offerta così formulata (di notevole importanza e gravità il fenomeno dell'hikikomori, dove l'aggangio con il mezzo virtuale permette davvero una possibilità di cambiamento per quella persona). Ma fatte queste esclusioni, non comprendo davvero il senso di proporre un consulto, una psicoterapia via skype, via mail....alle persone che soffrono di un malessere. Alcuni colleghi direbbero "ma così è un modo per agganciare quelle persone che non verrebbero negli studi professionali", ma a questa possibile obiezione mi verrebbe da pensare: "Ma forse non è una tua paura che questo non possa accadere? Ossia attraverso un mezzo virtuale, che tiene a distanza le persone, non si replica, seppur con buone intenzioni, un modello difensivo, dove la relazione, che spesso vediamo nella pratica clinica essere l'elemento decisivo dei malesseri, è relegata a uno scambio virtuale e piuttosto freddo? Ma la stretta di mano sulla porta, un sorriso nell'accogliere una persona sofferente, il comportamento non verbale (che veicola tra l'altro il 90% della comunicazione) dove li mettono i colleghi che si rivolgono a queste forme  "virtuali" (già la parola stessa non è garante di una vera relazione!)?
Credo che la tecnologia sia un mezzo importante, che con essa è davvero possibile raggiungere l'altro, i suoi timori, le sue paure, crisi esistenziali e malesseri di varia natura, che con essa possa aggiornarsi, vedere come è possibile curare quei disagi vissuti...ma poi il passo verso la cura deve essere relazionale. Ripenso al post della collega Carciotto del 1 febbraio u.s sullo psicologo in farmacia e alle sue parole circa la difficoltà che le persone devono incontrare per affrontare i loro problemi, difficoltà certo condivisa con lo psicologo, vissuta a due in un viaggio a ritroso nel proprio passato, ma che è importante che ci sia perchè solo superandola sarà possibile un vero e stabile cambiamento, altrimenti davvero si può parlare di relazione di aiuto legata ad un supporto, a un sostegno ma non di percorso terapeutico! Probabilmente i ritmi della società di oggi impongono forme di aiuto al passo con i tempi, terapie online e quant'altro sono modelli che rispondono sicuramente a questa velocità, ma non dobbiamo dimenticare che gli stessi problemi, malesseri, ansie, stress che vengono vissute oggigiorno come elementi problematici sono gli stessi derivati, in parte, di questi ritmi accelerati. E allora mi domando: un supporto virtuale d'aiuto non è forse un modo di risolvere un problema in un modo analogo (per forma e contenuti) a cosa ha generato il problema???!!!

mercoledì 1 febbraio 2012

Lo psicologo in farmacia


    Carissimi,

    oggi postiamo un articolo della collega Carciotto su la figura dello psicologo in farmacia. Buona lettura!
     

    Sfogliando una rivista mi imbatto ieri in un titolo “Io, psicologo in farmacia, vi faccio vivere meglio..a prezzi popolari”. È il titolo di un articolo che racconta della iniziativa promossa dalla regione Lombardia in collaborazione con l’Università Cattolica. L’iniziativa non mi giunge nuova: il n. 2 del Giornale dell’Ordine nazionale degli Psicologi (numero di ottobre 2011) aveva pubblicato il progetto “Psicologo in farmacia” sperimentato in Umbria in collaborazione con l’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Perugia, in occasione della Settimana del benessere psicologico in Umbria.

    Tornando all’articolo letto ieri, parla di una soluzione di cui ora può disporre il cittadino pagando un ticket di soli 10 euro che gli consente di accedere ad uno sportello di primo ascolto in farmacia. Uno psicoterapeuta, psicologo e specialista in Terapia Breve Strategica presente in farmacia mira alla soluzione del problema superando il modello per il quale prima veniva spiegato al paziente come convivere col suo problema col rischio che vi si identificasse.

    Continuando a seguire l’articolo, se il disagio di chiedere aiuto è insormontabile un ulteriore filtro, una pagina face book – Psicologo a Milano, per avere un consulto via chat. E ancora, per avere un consulto sempre in tasca, direi io, propongono anche una applicazione ad hoc per l’Iphone. In pratica, chiude l’articolo, “se il paziente non va dallo psicologo è lo psicologo che va da lui”. La lettura di questo breve articolo mi fa interrogare. Ritengo utile uscire dai nostri studi, smontando l’immagine silente e tanto parodiata dello studioso del funzionamento psichico.

    Una immagine quasi asettica e forse inflazionata. Credo sia funzionale “sporcare” il classico e ortodosso setting e incontrare il bisogno psicologico che muta ed evolve al passo coi tempi, ma mi chiedo, non rischiamo di saturare troppo con queste molteplici e variegate offerte? Mi vengono in mente le considerazioni di Thomas H. Ogden sul primo incontro analitico, che suggeriscono di non mettere a proprio agio il paziente in modo esagerato, chiedendo magari se è stato facile raggiungere lo studio o trovare parcheggio. L’autore considera un tale atteggiamento come un iniziale messaggio fornito al paziente che si incontra per la prima volta che la terapia debba essere qualcosa di facile accesso.

    Una psicoterapia non lo è, richiede un forte investimento, emotivo, energetico ed economico. E con questo noi, terapeuti di formazione analitica, ci misuriamo. Che tempo concediamo al disagio di essere riconosciuto dalla persona stessa? Allora forse bisogna chiedersi dove sta il limite tra cosa è psicoterapia e cosa è una relazione d’aiuto.

    Recupero il ricordo dell’intervento tenuto da uno psicoterapeuta, gruppoanalista e psicosociologo clinico torinese ascoltato un mese fa in una giornata di studio. Egli ci invita a riflettere sul fatto che se tutto è psicoterapia nulla lo è. La proposta evidenziata nell’articolo è quella di semplificare l’accesso, offrendo “un aiuto sotto casa”, arginando la paura delle persone di andare dallo specialista, ma mi chiedo, con tutte queste offerte, di chi è davvero la paura?

    Trovo utile chiudere con le parole del collega Santini nel post del 29 gennaio u.s. “una comprensione psicologica che passa necessariamente attraverso la condivisione emotiva e cognitiva di aspetti profondi di sé”

    A cura della dottoressa Tiziana Carciotto
    Psicologa - Via Siena 24, Catania